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giovedì 26 novembre 2020

La Peste Nera

 



 

So che stupirò molti lettori dicendo che l’agente della Peste non è un Virus, come molti pensano, ma un batterio il cui nome è Yersinia pestis, si tratta di un cocco-bacillo, che ha la forma di un corto cilindro.

I primi casi di peste risalgono a 5.000 anni fa e questo batterio ha avuto un tempo molto lungo per evolversi ed adattarsi perfettamente all’uomo fino diventare un terribile agente di morte.

 Brevemente questa malattia è una Zoonosi, cioè una  malattia infettiva che può essere trasmessa dagli animali all'uomo e i protagonisti sono : ratto – pulce – uomo. I ratti vengono infettati dal batterio, poi le pulci aspirando il loro sangue caricano anche il batterio e lo trasmettono all’uomo pungendolo.

 Ma vediamo i protagonisti di questa Zoonosi …

Inizialmente in Europa c’era solo il Rattus rattus o ratto nero orientale, molto resistente allo Yersinia, che difficilmente moriva; quando nel XIV secolo venne sostituito dal Rattus norvegicus o ratto grigio, che moriva di peste, costringendo le pulci a passare ad altri ospiti, iniziarono le grandi Epidemie.

La pulce, che non è mai variata è la Xenopsylla cheopis, con cui il batterio ha un legame evolutivo perverso, una volta ingerito dalla pulce le blocca lo stomaco e la costringe letteralmente a vomitarlo nell’uomo che pungerà. È stato necessario un tempo molto lungo perché l’Evoluzione stabilizzasse questo percorso … diffidate di coloro che ora vi dicono che il SARS-CoV-2 evolve in pochi giorni, non è affatto vero!

Si distinguono tre forme di peste: peste bubbonica, peste polmonare e peste setticemica.

La peste bubbonica  vede la proliferazione del batterio nei linfonodi con conseguente necrosi, che se non trattata, evolve in setticemia e causa la colorazione nera della pelle, che ha creato il nome comune della malattia.

Il batterio Yersinia pestis venne scoperto solo nel 1894 da Alexandre Yersin, un medico franco-svizzero, che operava come batteriologo all'Istituto Pasteur, durante un'epidemia di peste scoppiata ad Hong Kong; Yersin aveva inseguito i focolai epidemici in Oriente fino a trovare finalmente il batterio!

Ma stavo dimenticando di dire la cosa più bella: essendo lo Yersinia pestis un batterio viene ucciso dagli Antibiotici! Pensate ai milioni di morti causati da questo orribile morbo, prima che il medico scozzese Alexander Fleming scoprisse la penicillina, la Buona Scienza aiuta l’Umanità!

I soliti Cinesi, che non si fanno mai mancare nulla e che non dimentichiamolo mai sono coloro che hanno creato l'attuale pandemia, per negligenza o altro,  lo scorso settembre hanno avuto casi di peste bubbonica nella provincia dello Yunnan; là la peste è endemica tra le marmotte e loro le mangiano crude!

Prima di chiudere vorrei spendere ancora qualche parola per spiegare chi rappresentano le sinistre immagini che vedete in questa pagina … sono i Medici della Peste !

Questo “costume” fu creato da Charles de Lorme, medico della corte reale di Francia durante il XVII secolo e non come molti pensano a Milano o a Venezia!

L’abbigliamento era composto da un cappotto ricoperto di cera profumata, calzoni alla zuava legati agli stivali, una camicia infilata nei pantaloni, accompagnati da cappello e guanti in pelle di capra. I medici della peste portavano anche una verga che permetteva loro di visitare gli appestati, senza toccarli direttamente.

L’abbigliamento del capo era particolarmente insolito: i medici della peste dovevano infatti indossare occhiali, spiegava de Lorme, e una maschera con un naso “lungo una ventina di centimetri, a forma di becco, pieno di erbe medicinali e con due soli buchi, uno per lato accanto alla rispettiva narice, ma che era sufficiente a respirare, che portava insieme all’aria l’effluvio delle erbe contenute lungo il becco”.

 

mercoledì 25 novembre 2020

La Peste di Cimamulera



La Peste Nera era lo strumento della Morte, raffigurata con il Nero Mantello e la falce, che dal XIV secolo terrorizzava i popoli europei e quelli del bacino del Mediterraneo.

Ma la peste non viaggiava mai sola, bensì con altre due Compagne: la carestia e la guerra.

I credenti pregavano: “A peste, fame et bello libera nos Domine” in genere però le tre Compagne giungevano in ordine opposto: prima la guerra colpiva i territori provocando le carestie, che indebolivano gli esseri umani, poi arrivava la peste che li uccideva.

A questo punto, devo forzatamente menzionarlo per motivi storici: la Peste era considerata il Flagello con cui Dio puniva i peccatori!

Ma andiamo al XVI secolo quando l’Ossola e le sue Valli, essendo possesso del Ducato di Milano, subirono la Dominazione Spagnola, che con i suoi Governatori inetti, le sue tasse ed i suoi soldati violenti, sporchi e senza guida, provocò danni incalcolabili e fu causa di pestilenze ricorrenti.

Occorre dire che però le autorità avevano già introdotto strumenti, che anche noi abbiamo usato durante l’epidemia di Covid19 e cioè: Prefetti Sanitari che chiudevano i territori e bloccavano la libera circolazione di uomini e merci, creazione di Lazzaretti dove venivano rinchiusi i malati e dove i guariti trascorrevano la Quarantena.

Nel 1576 Milano fu colpita da una violenta epidemia di peste, che causò 14.000 morti, nota come “Peste di San Carlo”, che fortunatamente non giunse in Ossola; però nel vicino Vallese la peste era endemica e si ripresentava nei mesi estivi, motivo per cui le autorità sanitarie avevano chiuso i passi con la Svizzera.

Ma la peste che nel 1585 colpì Cimamulera non arrivò dal Vallese!

Quella che è probabilmente solo una leggenda dice che fu il bandito Antonio Albasino, che da Milano si rifugiò a Cimamulera, a portare la peste.

Invece la peste venne dal lago, risalendo le acque della Toce sui barconi che portavano al Porto della Masone, posto tra Vogogna e Piedimulera, le granaglie della pianura, sempre più scarse in anni di carestia, ma anche spezie e stoffe.

Il porto era gestito dai Cavalieri di Malta, che proprio lì avevano una Mansione, ed era il punto più importante della via fluviale dell’Ossola, ove le merci, che erano partite dalla Darsena di Milano, venivano scaricate dai barconi ed erano trasportate con le some sulle mulattiere alpestri, dirette ai numerosi passi. Dal porto i barconi tornavano al Lago trasportando legna, formaggi, carbone, pelli e sale.

Tale era il movimento di persone eterogenee e merci, che i Commissari della Sanità a fatica riuscivano a controllarlo, per evitare che tra le merci in transito ci fosse il morbo … lasciatemi dire una cosa, dal momento che la peste era mandata da Dio, questi Commissari cosa cercavano tra le merci?

Mah proseguiamo ...

Comunque a metà agosto del 1585 il morbo prese la mulattiera per Macugnaga ed arrivò a Cimamulera, una o più persone furono infettate, l’epidemia esplose e si trasmise a Miggiana e Castiglione e di ritorno a Piedimulera. Si trattava, per gli sfortunati valligiani, di un ceppo di Peste Bubbonica estremamente forte e con grande virulenza.

L’8 settembre da Vogogna, il delegato della Sanità Arcangelo Meravigli dispose la chiusura "della bocca della Tosa", a Fondotoce, per sbarrare il traffico fluviale. Chiese ed ottenne due monatti "avendone non solamente bisogno ma estrema necessità, ritrovandosi ora tra morti e ammalati sessanta persone nel detto luogo di Cimamulera.”

Spesso mi sono sentita raccontare che sempre l’orribile morbo si fermava a Castiglione! Come mai mi sono chiesta? Semplice coloro che abitavano oltre entravano in valle in questo modo: da Vergonte salivano a Fomarco e percorrendo i sentieri dell’Opaco arrivavano a Calasca e poi via sicuri fino a Macugnaga!

Quindi non fu la malevolenza divina a colpire Cimamulera, ma la nefasta Mulattiera che l’attraversava. Dirò di più ora che esiste una strada statale che collega direttamente Piedimulera a Macugnaga … durante la prima ondata della pandemia di Covid19 a Cimamulera non ci sono stati contagi! 

Invece per la serie Qui gladio ferit, gladio perit, la seconda ondata dell'epidemia ha colpito anche Fomarco, Calasca e il resto della Valle Anzasca e non Cimamulera!

Ma torniamo a quel settembre del 1585 … si evidenziò la necessità di creare un Lazzaretto e si scelse un luogo nel "piano di Vergonte Supe­riore, al Sestelerium, frazione di Piedimulera e nel prato del signor Guglielmo Guglielmazzi, Nobile di Cimamulera".

Il Lazzaretto era attrezzato con tende e capanne di frasche per alloggiare i malati ed i superstiti, recintato e strettamente sorvegliato da alcuni soldati sotto il controllo delle autorità sanitarie. Al centro venne eretta una grande croce di legno, tanto grande che la si vedeva in lontananza, da tutti i paesi del Piano. La croce, simbolo della fede del popolo, si credeva essere l'unico possibile rimedio, per fermare l'ira divina.

A Cimamulera la peste fece 200 vittime su un totale di 535 abitanti.

Il 16 ottobre 1585 ai piedi della croce si riunirono tutti gli ospiti del campo: genuflessi, con le mani giunte, assistiti dal cappellano Fornari, innalzarono i salmi penitenziali invocando così la divina misericordia: “Il Signore onnipotente a causa degli innumerevoli pec­cati del popolo di Cimamulera, nel mese di agosto passato ha mandato il flagello della peste… Perciò, fiduciosi nella divina grazia, intendono placare con l'intercessione dei santi, mediante un solenne voto speciale, la collera del Signore, e la giusta punizione dei loro peccati.

 Chiedono che la divina Maestà si degni liberare loro e le loro fami­glie dal tormento della peste: invece di castigarli flagellandoli a morte … Giurano pertanto di erigere nel termine di sei anni, nella terra e luogo di Cimamulera, una cappella dedicata ai santi Rocco, Fabiano e Sebastiano”. (1)

Vorrei ora riflettere su un fatto importante: ma davvero questi sacerdoti potevano credere che Dio mandasse la peste per punire questa povera gente ossolana, falcidiata da guerre e carestie? E come li hanno messi, malati e convalescenti? Tutti in ginocchio a pregare e ad autoaccusarsi! Lasciatemelo dire ... che vergogna!

La peste finì quasi subito e dopo la quarantena i superstiti tornarono nel loro paese … la popolazione era dimezzata, famiglie intere erano scomparse, ma anche quelle rimaste erano state colpite..

 




Venne edificato anche l’Oratorio di San Rocco, nella piazza principale di Cimamulera, di fronte alla Parrocchiale. Sopra la porta d’ingresso fu posta una lapide, collocata sotto un’immagine del Santo, recante la scritta:

1585

+ HOC POPULUM TEMPLUM CURAVIT TOLLERE CHRISTO ET ROCHO DIVO, PESTIS AMARA LUES CUM PREMERET DIRE TOTUM ET PLUS PARTE PEREMPTUM QUI STATIM LIBER TENDIT AD ASTRA MANUS

Il Popolo curò di innalzare questo tempio a Cristo e a San Rocco, mentre una terribile epidemia di peste infieriva in maniera crudele su tutto il popolo e già gran parte era stata uccisa, popolo che, subito libero, tende le mani al cielo


La chiesetta dedicata al Santo di Montpellier esiste ancora, ha uno stupendo altare in legno decorato, che incornicia un quadro ad olio su tela, molto bello dipinto da Valentino Rossetti da Omegna nel 1696.




Nella parte superiore del dipinto si trova la Vergine Maria con il Bambino in braccio, contornata da cherubini, e da altri Santi; da sinistra a destra: Santa Apollonia, San Giulio, San Maurizio e Santa Margerita.

Nella parte inferiore del dipinto sulla destra è rappresentato San Sebastiano, trafitto dai dardi della peste e sulla sinistra San Rocco nella sua immagine classica, con i segni del morbo su una gamba … manca il cane!

Devo essere sincera, essendo io di origini cimamuleresi, mi sono commossa nel raccontare questa terribile vicenda occorsa a persone con cui condivido parte del mio DNA.

 

 

Bibliografia:

 -Documento del Giuramento conservato nella Casa Parrocchiale di Cimamulera

 -Tullio Bertamini  “Storia di Cimamulera”, 2001

 -Enrico Rizzi  “Memorie di fame, carestie e peste nell’Ossola. XIV – XVII secolo” Grossi, 2018

  

giovedì 21 novembre 2019

IL GIOVANE LEONARDO




L’Antefatto


Leonardo nacque il 15 aprile 1452 ad Anchiano, frazione di Vinci da una relazione amorosa tra il giovane notaio ventiseienne Ser Piero da Vinci e la giovanissima Caterina di Meo Lippi, di circa 16 anni, figlia di fittavoli della famiglia da Vinci.
I due si conobbero nell’estate del 1451 nelle bellissime campagne che ancora oggi circondano la piccola città di Vinci, ricche di ulivi e viti. Ser Piero illuse l’ingenua Caterina, dicendole che l’avrebbe sposata, ma così non fece e dopo due mesi tornò a Firenze, dove si fidanzò con Albiera di Giovanni Amadori, ragazza di ricca famiglia. Caterina si accorse di essere incinta e lo comunicò a Ser Antonio e alla moglie Lucia.


Quando il giovane notaio venne a conoscenza della notizia, ne fu felice e disse a Caterina che avrebbe dato al bimbo il suo cognome, ma che non avrebbe potuto riconoscerlo legalmente perché nato fuori dal matrimonio. La giovane partorì nella propria casa ad Anchiano, ma il piccolo Leonardo le fu tolto dai Nonni, che lo portarono nella loro dimora a Vinci.
Il Nonno paterno Ser Antonio così ricorda con orgoglio la nascita del primo nipote:

Nacque un mio nipote, figliolo di ser Piero mio figliolo a dì 15 aprile in sabato a ore 3 di notte.
Ebbe nome Lionardo. Battizzollo prete Piero di Bartolomeo da Vinci, in presenza di Papino di Nanni…”

Il bimbo venne battezzato nella piccola chiesa di Santa Croce in Vinci, ove ancora oggi è possibile vedere il Fonte Battesimale e la targa che riporta l’annuncio di Ser Antonio.



 

Pochi giorni dopo Caterina venne accolta nella casa dei Nonni, in qualità di balia! Così veniva chiamata da tutti … la Balia di Leonardo, non la Madre. Certo Leonardo, che doveva essere intelligentissimo già in tenera età, sapeva benissimo che Caterina era sua Madre, anche perché in seguito ebbe solo una serie di Matrigne, Ser Piero infatti ebbe il primo figlio legittimo, dalla sua terza moglie, quando Leonardo aveva già 24 anni! Una piccola rivincita del Destino su un uomo che non riuscì mai ad amare e a comprendere il suo prodigioso figliolo.Dopo circa un anno la giovane venne allontanata da Leonardo e data in sposa ad un brav’uomo, il ceramista Antonio Buti del Vacca, un ex soldato di ventura, dal quale ebbe cinque figli.


Molti anni dopo la povera Caterina raggiunse Leonardo a Milano, ove lui lavorava per il Moro, e trascorse con lui gli ultimi due anni della sua vita.



La Madre araba

 

Voglio qui spendere poche parole per informare i lettori che quanto ho scritto sui genitori di Leonardo è provato da dati storici e catastali raccolti a Vinci e a Firenze.
Come mai lo faccio? Semplicemente perché in questo periodo spuntano ipotesi deliranti sulla Madre di Leonardo! Da impronte digitali da lui lasciate sul San Girolamo, sedicenti esperti hanno affermato che il Genio Universale fosse di origini arabe, come se dalle impronte digitali si potesse dedurre l’etnia di una persona!

Quindi la Madre di Leonardo era araba? o una schiava circassa, o mediorientale? E poi uno chiede ma queste schiave si chiamavano Caterina? Tipico nome orientale eh!
Ma la più bella è recentissima … ci hanno anche scritto un libro: Colei che generò Leonardo era di Hong Kong, infatti quando vedrete più avanti il frutto di questo incrocio, noterete i caratteristici occhi a mandorla e le altre caratteristiche del Fenotipo Cinese.


Gli Anni trascorsi a Vinci

 
Ser Piero si stabilì a Firenze con la moglie, Leonardo invece rimase a Vinci con i Nonni e lo Zio Francesco.
Questo è confermato nella dichiarazione per il Catasto di Vinci dell'anno 1457, ove si riporta che Ser Antonio aveva 85 anni e abitava nel popolo di Santa Croce, marito di Lucia, di anni 64, e aveva per figli Francesco e Piero, d'anni 30, sposato ad Albiera, ventunenne, e con loro convivente era «Lionardo figliuolo di detto ser Piero non legittimo nato di lui e della Chaterina che al presente è donna di Antonio del Vacca da Vinci, d'anni 5».

Tra Leonardo e lo Zio Francesco c’era un’ottima intesa, spesso esploravano le campagne e i boschi intorno a Vinci; Leonardo era felice perché poteva osservare fiori ed animali, un amore per la Natura che traspose nei dipinti e nelle sue ricerche sul volo.
Conosceva bene e distingueva le diverse, mi verrebbe da dire specie, ma è un termine che fu introdotto tre secoli dopo; quindi dirò distingueva i diversi tipi di fiori. Infatti quando realizzò quel dipinto meraviglioso che è l’Annunciazione, li riprodusse in grande numero e con molta esattezza.

La Corporazione dei Notai di Firenze, non ammetteva figli illegittimi, per cui Ser Piero non si preoccupò di dare un’istruzione al figlio!
La sua educazione fu piuttosto disordinata e discontinua, senza una programmazione di fondo e suoi precettori furono il nonno Antonio, lo zio Francesco e il Sacerdote che l’aveva battezzato. Il fanciullo imparò infatti a scrivere da solo, con la mano sinistra, scrivendo sul foglio da destra a sinistra, in maniera del tutto speculare alla scrittura normale.
Sappiamo da Giorgio Vasari, che infine il padre (bontà sua), iscrisse il figlio alla scuola dell'Abaco, dove apprese le basi dell'Aritmetica e della Geometria e che se ne allontanò perché l'insegnante non soddisfaceva le sue richieste di spiegazioni: “movendo di continuo dubbi e difficultà al Maestro che gl’insegnava, così bene, che spesso lo confondeva”

Leonardo comunque recuperò quando a Milano conobbe il grande matematico Fra’ Luca Pacioli, che lo introdusse ai Misteri della sua Scienza; egli fu attratto soprattutto dalla Geometria e da alcune tipologie di problemi ad essa collegabili, che presentavano un interesse anche da un punto di vista pittorico e architettonico.
 
 

Si va a Firenze …


 

Nel 1464 Ser Piero portò Leonardo a Firenze, includendolo nella sua famiglia. Fin da piccolo Leonardo amava tracciare linee e disegni sulla carta di buona qualità, che certo non mancava nella casa del Nonno; anche suo padre si era accorto che il figlio aveva buona attitudine per il disegno.
 
Poi un giorno un fittavolo si recò da Ser Piero con una bella rondella di legno, chiedendogli di farla decorare da un pittore, lo avrebbe risarcito con della cacciagione. Ma anziché pagare un pittore lui portò il disco a Leonardo e gli chiese se voleva dipingerlo; il ragazzo si chiuse nella sua stanza per una settimana! Aveva deciso di creare uno scudo da guerriero, vi dipinse infatti la testa di Medusa, per renderla ancora più spaventosa aggiunse serpi, lucertole, grilli, locuste e ramarri, tutti rigorosamente dipinti dal vivo! Quando l’opera fu terminata il ragazzo fece entrare il padre nella sua stanza, aprì le scuri e lasciò entrare la luce; Ser Piero si spaventò moltissimo, ma poi quella Medusa con il volto incorniciato da animali gli piacque molto! Naturalmente lo vendette subito per 100 scudi a dei mercanti. Così era il padre di Leonardo … il giudizio lo lascio a voi lettori.
 
Come per altre opere del Genio di Vinci non si sa dove sia finito lo scudo, dopo essere stato per un periodo proprietà del Duca di Firenze Cosimo de’ Medici. Pieter Rubens immagine e Caravaggio immagine  lo videro sicuramente, ma forse fu più Rubens ad ispirarsi all’opera di Leonardo.
Allora Ser Piero, facendo finalmente una scelta illuminata, portò Leonardo nella Bottega di Andrea del Verrocchio, pittore, scultore ed orafo fiorentino di grande talento. Quella del Verrocchio era indubbiamente la miglior Bottega dell’Arte di Firenze, tra gli apprendisti c'erano Sandro Botticelli, Pietro Perugino, Domenico Ghirlandaio e Lorenzo di Credi.  Questo fu l'ambiente in cui Leonardo apprese la sua arte.
Nella Bottega si esercitavano vari tipi di attività: dalla pittura e scultura alle arti cosiddette "minori". Ma soprattutto si praticava l'arte del disegno in modo talmente perfetto che, anche oggigiorno, è difficile sapere se un'opera è stata fatta da un Maestro o dal rispettivo allievo. Oltre che dipingere e scolpire, agli allievi venivano insegnate alcune nozioni di carpenteria, architettura, meccanica ed ingegneria.
Già nel 1472 Leonardo era riconosciuto come vero e proprio pittore autonomo. La sua prima opera è datata 5 Agosto del 1473 ed è intitolata Il Paesaggio sul Fiume.
Si tratta di un disegno realizzato con una veduta a volo di uccello e riprende la Valle del fiume Arno.
Fu anche il primo paesaggio vero e proprio, non solo lo sfondo di un dipinto.
 



 
Anche Leonardo venne coinvolto dal Verrocchio nella realizzazione di un dipinto … si trattava del Battesimo di Cristo, a lui venne assegnato l’ultimo angioletto in basso a sinistra. Leonardo lo dipinse così bene, (e a mio parere dipinse anche lo sfondo sfumato), che il Verrocchio spezzò i suoi pennelli, giurando che non avrebbe mai più dipinto! Ora questa è sicuramente una Leggenda Metropolitana, ma l’abilità del giovane pittore è evidentissima.
 
 







 
Dopo opportuni confronti forse era meglio che il Verrocchio si desse alla scultura!

Leonardo nacque vecchio?
 
 
 

Ma arriviamo ora ad un punto molto importante. Leonardo nacque vecchio? E a 15 anni aveva già l’aspetto di un vecchio cadente, che possiamo vedere nel suo presunto autoritratto eseguito a sanguigna? Questo intendo?

Ovviamente no, ma vorrei che rifletteste su un fatto: perché i grandi geni del passato sono sempre rappresentati con immagini che li ritraggono vecchissimi. Vi chiedo avete mai visto immagini giovanili di Charles Darwin o di Albert Einstein? Non credo proprio. Io ne ho parlato  QUI  nel mio Blog! Andate a dare un'occhiata …

 

 

Il bellissimo Leonardo

 
E allora che aspetto aveva Leonardo? Attorno ai 30 anni veniva descritto così da chi lo conobbe: era molto alto ed aveva un fisico prestante, il viso bellissimo era illuminato da grandi occhi chiari, molto dolci; aveva capelli biondi, che portava lunghi, facendo ricadere i riccioli sulla schiena.


Questo è convalidato da dipinti e sculture in cui lui appare, perché era così bello che spesso veniva usato come modello. Dove? Calma che ci arriviamo …


 Il Verrocchio lo usò come modello per la sua splendida statua del David.





Nella pala di Francesco Botticini: I tre Arcangeli Leonardo è San Michele che regge la spada.
 
 
 


 
 

E poi nella Adorazione dei Magi del Botticelli è il giovane vestito di bianco accanto a Lorenzo de’ Medici.
 
 




 
 

Terminando questo lungo excursus su Leonardo, diciamo che potrei accettare come sua immagine di quando era più agée questa realizzata dal suo Discepolo Francesco Melzi, che lo seguì ad Amboise …
 
 
 
 
Arrivederci Leonardo … ho un unico rammarico che non sia ancora stata inventata una Macchina del Tempo, che mi permetterebbe d’incontrarti  :(

 

lunedì 25 marzo 2019

Alla scoperta delle leggi della vita. Ritratti di Redi, Maupertuis, Trembley, Von Humboldt, Wallace, Mendel

Finalmente un testo interessante di Storia della Biologia

 
 
 
Ho avuto  modo in questo periodo di leggere il testo:
"Alla scoperta delle leggi della vita. Ritratti di Redi, Maupertuis, Trembley, Von Humboldt, Wallace, Mendel" di Federico Focher.
Si tratta di un testo che affronta biografie di Biologi, poco conosciuti al grande pubblico, vissuti tra il XVII e il XIX secolo. Le singole biografie sono molto interessanti ed inoltre, fatto unico nel panorama italiano, Focher riporta molti testi originali degli autori, essenziali a mio avviso per rendere la conoscenza completa. Ad esempio immagino che alcuni  di voi abbiano letto di Alexander Von Humboldt … bene il naturalista tedesco scrive meravigliosamente, tanto che non leggere i suoi testi è un vero peccato!
Per non tediare i miei lettori e per lasciare loro giustamente un po' di suspance … voglio parlarvi oggi solo del capitolo dedicato a Gregor Mendel. Ecco quindi  le mie considerazioni.
È sicuramente la biografia breve di Mendel più bella ed approfondita che ho letto finora.
L’aspetto psicologico del Monaco di Brno è analizzato in profondità, in particolare ho molto apprezzato la ricerca delle motivazioni delle diverse depressioni che Mendel  subì durante la vita.
Mendel venne bocciato per due volte allo stesso Esame, che avrebbe dovuto farlo diventare insegnante di ruolo, ebbene le cause del non superamento dei 2 Corsi abilitanti è veramente ben descritto.
Studiando la vita del Padre della Genetica, non avevo mai approfondito il periodo degli studi universitari a Vienna … Focher lo fa a ragione, perché questo  periodo spiega bene il modus agendi di Mendel nelle sue ricerche!
Aveva avuto la fortuna di avere insegnanti molto validi come … 
il fisico Christian Doppler da cui aveva imparato ad usare  il Metodo Sperimentale e a preparare gli apparati per gli esperimenti stessi; da Andreas von Ettinghausen apprese il calcolo combinatorio e la  Statistica.
Che dire poi di Unger che aveva aperto la  mente  di Mendel all’Evoluzionismo e lo aveva liberato dalle costrizioni creazioniste del Monastero!
 Dall’analisi del capitolo si evince come Mendel sia stato “un Monaco rubato alla Scienza”, per ragioni economiche ben inteso; anche in Inghilterra nello stesso periodo troviamo tanti personaggi che sono stati Pastori Anglicani, per poter portare avanti i loro studi come … John Steven Henslow, il mentore di Darwin e molti altri.
 
Buona lettura!
 
 
 

 

martedì 5 marzo 2019

Da IL NOME DELLA ROSA di Umberto Eco, un esempio di indagine scientifica


Propongo del Materiale Didattico, che ho creato ed usato per anni per valutare le capacità logico deduttive dei miei allievi di Quarta Liceo, prima di iniziare il programma di Chimica.
Naturalmente il Materiale può essere usato liberamente dai Docenti che sono interessati, chiedo solo di far menzione del mio nome e di postare un Link al mio Blog.
Buon lavoro!




La prima competenza da acquisire per poter iniziare correttamente lo studio di una materia scientifica è un atteggiamento mentale rivolto all’indagine, alla ricerca di possibili spiegazioni di un fatto. A questo scopo vi si propone la lettura e la successiva rielaborazione di un brano, tratto dal libro di Umberto Eco “Il Nome Della Rosa”. Ecco alcune informazioni utili alla comprensione del brano:

1 – Il periodo
      La vicenda è ambientata nel Medioevo, in particolare nel novembre dell’anno 1327.

2 – Il luogo
      Un’Abbazia posta sui monti tra Piemonte e Liguria

3 – I personaggi
      Frate Guglielmo da Baskerville, incaricato di una missione diplomatica, ex-inquisitore, si trova a dover indagare su una serie di misteriose morti avvenute nell’Abbazia. Adso da Melk, novizio       benedettino, accompagnatore di Frate Guglielmo e suo ammirato discepolo, è il narratore       di tutta  la vicenda.
 
4 – Il momento in cui si colloca il brano
      Guglielmo e Adso, dopo un lungo viaggio, sono giunti in vista dell’Abbazia e ne stanno      osservando l’imponente e geometrica struttura e i dintorni ricoperti da uno strato sottile di neve fresca.


 
PARTE PRIMA
Abitudine al gusto dell’osservazione
 
 ;Mentre i nostri muletti arrancavano per l’ultimo tornante della montagna, là dove il cammino principale si diramava a trivio, generando due sentieri laterali, il mio maestro si arrestò per qualche tempo, guardandosi intorno ai lati della strada, e sulla strada, e sopra la strada, dove una serie di pini sempreverdi formava per un breve tratto un tetto naturale, canuto di neve.
“Abbazia ricca,” disse. “All’Abate piace apparire bene nelle pubbliche occasioni.”
Abituato come ero a sentirlo fare le più singolari affermazioni, non lo interrogai. Anche perché, dopo un altro tratto di strada, udimmo dei rumori, e a una svolta apparve un agitato manipolo di monaci e di famigli. Uno di essi, come ci vide, ci venne incontro con molta urbanità: “Benvenuto signore,” disse, “e non vi stupite se immagino chi siete, perché siamo stati avvertiti della vostra visita. Io sono Remigio da Varagine, il cellario del monastero. E se voi siete, come credo, frate Guglielmo da Bascavilla, l’Abate dovrà esserne avvisato. Tu,” ordinò rivolto a uno del seguito, “risali ad avvertire che il nostro visitatore sta per entrare nella cinta!”
Il piacere dell’intuizione
“Vi ringrazio, signor cellario,” rispose cordialmente il mio maestro, “e tanto più apprezzo la vostra cortesia in quanto per salutarmi avete interrotto l’inseguimento. Ma non temete, il cavallo è passato di qua e si è diretto per il sentiero di destra. Non potrà andar molto lontano perché, arrivato al deposito dello strame, dovrà fermarsi. È troppo intelligente per buttarsi lungo il terreno scosceso…”
“Quando lo avete visto?” domandò il cellario.
“Non l’abbiamo visto affatto, non è vero Adso?” disse Guglielmo volgendosi verso di me con aria divertita. “Ma se cercate Brunello, l’animale non può che essere là dove io ho detto.”
 
L’interpretazione come conseguenza della minuziosa osservazione

  Il cellario ebbe un momento di esitazione, poi fece un segno ai suoi e si gettò giù per il sentiero di destra, mentre i nostri muli riprendevano a salire. Mentre stavo per interrogare Guglielmo, perché ero morso dalla curiosità, egli mi fece cenno di attendere: e infatti pochi minuti dopo udimmo grida di giubilo, e alla svolta del sentiero riapparvero monaci e famigli riportando il cavallo per il morso. Ci passarono di fianco continuando a guardarci alquanto sbalorditi e ci precedettero verso l’abbazia. Credo anche che Guglielmo rallentasse il passo alla sua cavalcatura per permettere loro di raccontare quanto era accaduto. Infatti avevo avuto modo di accorgermi che il mio maestro, in tutto e per tutto uomo di altissima virtù, indulgeva al vizio della vanità quando si trattava di dar prova del suo acume e, avendone già apprezzato le doti di sottile diplomatico, capii che voleva arrivare alla meta preceduto da una solida fama di uomo sapiente.
“E ora ditemi,” alla fine non seppi trattenermi, “come avete fatto a sapere?”
 
PARTE SECONDA
Questionario
Spiegate le seguenti affermazioni di Guglielmo da Baskerville: 
 1.      Le persone stavano inseguendo un cavallo
2.      Il cavallo si è diretto per il sentiero di destra
3.      Era il cavallo preferito dell’Abate
4.      Era nero di pelo
5.      Era alto 5 piedi
6.      Aveva una coda sontuosa
7.      I suoi zoccoli erano piccoli e rotondi
8.      Aveva un galoppo regolare
9.      Possedeva capo minuto, orecchie sottili e occhi grandi
10.  Il suo nome era Brunello
11.  Indagate per scoprire i collegamenti contenuti nei nomi dei due protagonisti: 
      Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk





 
PARTE TERZA
L’abilità nel ragionamento

“Mio buon Adso,” disse il maestro. È tutto il viaggio che ti insegno a riconoscere le tracce con cui il mondo ci parla come un grande libro. Alano delle Isole diceva che 
omnis mundi creatura
quasi liber et pictura
 nobis est in speculum
 

e pensava alla inesausta riserva di simboli con cui Dio, attraverso le sue creature, ci parla della vita eterna. Ma l’universo è ancor più loquace di come pensava Alano e non solo parla delle cose ultime (nel qual caso lo fa sempre in modo oscuro) ma anche di quelle prossime, e in questo è chiarissimo. Quasi mi vergogno a ripeterti quel che dovresti sapere. Al trivio, sulla neve ancora fresca, si disegnavano con molta chiarezza le impronte degli zoccoli di un cavallo, che puntavano verso il sentiero alla nostra sinistra. A bella e uguale distanza l’uno dall’altro, quei segni dicevano che lo zoccolo era piccolo e rotondo, e il galoppo di grande regolarità — così che ne dedussi la natura del cavallo, e il fatto che esso non correva disordinatamente come fa un animale imbizzarrito. Là dove i pini formavano come una tettoia naturale, alcuni rami erano stati spezzati di fresco giusto all’altezza di cinque piedi. Uno dei cespugli di more, là dove l’animale deve aver girato per infilare il sentiero alla sua destra, mentre fieramente scuoteva la sua bella coda, tratteneva ancora tra gli spini dei lunghi crini nerissimi… Non mi dirai infine che non sai che quel sentiero conduce al deposito dello strame, perché salendo per il tornante inferiore abbiamo visto la bava dei detriti scendere a strapiombo ai piedi del torrione meridionale, bruttando la neve; e così come il trivio era disposto, il sentiero non poteva che condurre in quella direzione.”
“    Sì,” dissi, “ma il capo piccolo, le orecchie aguzze, gli occhi grandi…”

    “Non so se li abbia, ma certo i monaci lo credono fermamente. Diceva Isidoro di Siviglia che la bellezza di un cavallo esige «ut sit exiguum caput et siccum prope pelle ossibus adhaerente, aures breves et argutae, oculi magni, nares patulae, erecta cervix, coma densa et cauda, ungularum soliditate fixa rotunditas». Se il cavallo di cui ho inferito il passaggio non fosse stato davvero il migliore della scuderia, non spiegheresti perché a inseguirlo non sono stati solo gli stallieri, ma si è incomodato addirittura il cellario. E un monaco che considera un cavallo eccellente, al di là delle forme naturali, non può non vederlo così come le auctoritates glielo hanno descritto, specie se,» e qui sorrise con malizia al mio indirizzo, «è un dotto benedettino…»”.
     "Va bene,” dissi, “ma perché Brunello?”
     "Che lo Spirito Santo ti dia più sale in zucca di quel che hai, figlio mio!” esclamò il maestro. “Quale altro nome gli avresti dato se persino il grande Buridano, che sta per diventare rettore a Parigi, dovendo parlare di un bel cavallo, non trovò nome più naturale?”

     Così era il mio maestro. Non soltanto sapeva leggere nel gran libro della natura, ma anche nel modo in cui i monaci leggevano i libri della scrittura, e pensavano attraverso di quelli. Dote che, come vedremo, gli doveva tornar assai utile nei giorni che sarebbero seguiti. La sua spiegazione inoltre mi parve a quel punto tanto ovvia che l’umiliazione per non averla trovata da solo fu sopraffatta dall’orgoglio di esserne ormai compartecipe e quasi mi congratulai con me stesso per la mia acutezza.